Il transumanesimo è quella moderna corrente di pensiero che considera l’uomo come individuo singolo, isolato, la cui individualità va potenziata grazie alle macchine. In effetti, un essere umano da solo è ben poca cosa: fragile su un piano organico, ansioso sul piano esistenziale, animato da bisogni che non sa soddisfare. Cosa resta a chi crede di essere fondamentalmente solo e inerme se non aggiungere strumenti artificiali alla propria solitudine? Ciascuno di noi lo fa già con un computer o un cellulare, un tempo lo si faceva col telefono e il televisore… In questa linea, oggi i transumanisti prevedono che il singolo essere umano debba essere completato dall’intelligenza artificiale e che questa si svilupperà tanto da prendere il posto dell’intelligenza umana, considerata meno efficiente. Nelle loro valutazioni, l’intelligenza artificiale è molto più veloce e batte qualunque essere umano nei giochi di memoria e di calcolo. Quindi perché non affidare tutto (anche le transazioni giuridiche o finanziarie) a lei? Dal mio punto di vista, che è naturalistico e umanistico, è vero che possiamo isolarci dagli altri, questo però non vuol dire che la nostra essenza naturale sia singolare. Le prove a carico di questa mia argomentazione sono di una assoluta semplicità. Se fosse vero la tesi che l’uomo naturale è un individuo isolabile dagli altri, dovremmo dedurre da essa due corollari fondamentali, validi per ogni essere umano: da un lato la sua “solitudine ontologica”: egli nascerebbe, crescerebbe e morirebbe da solo; dall’altro il suo “egocentrismo morale”: egli vivrebbe in funzione del suo mero interesse egoistico. Ebbene, per convalidare o confutare la tesi dell’uomo isolato occorre valutare quali sono gli effetti radicali della solitudine ontologica e dell’egocentrismo morale e se questi effetti sono compatibili con la prospettiva evoluzionistica. Mi limito a riferire due osservazioni scientifiche inconfutabili, di alcuni decenni fa. Gli esperimenti di Harlow con le scimmie, nei quali un cucciolo di scimmia doveva scegliere fra due manufatti, una “madre metallica con biberon” e una “madre col pelo caldo”, dimostrano che la piccola scimmia preferisce il calore del contatto corporeo al mero nutrimento meccanico. Allo stesso modo, grazie alle osservazioni empiriche di Spitz sui neonati ospedalizzati privati, in modo non intenzionale, del contatto fisico con un essere umano accuditivo dimostrarono che questi neonati sviluppavano sindromi di abbandono, gravi patologie mentali, nonché abulia e inedia fino a morire. Dunque, la solitudine ontologica, necessaria perché si sviluppi un egocentrismo morale assoluto, non coincide con gli interessi evoluzionistici né dei primati né della nostra della specie, perché, ove si realizzi, causa gravi danni sia psichici che fisici. Il concetto di solitudine ontologica, ovvero di individualismo biologico, è dunque sbagliato in radice. L’errore del pensiero individualista (quindi anche del progetto transumanista) nasce da un presupposto ingenuo: che la coscienza di sé appartenga agli individui e dimostri la loro essenza solitaria. È uno sbaglio. Pensiamo a una lingua. In forza di cosa esiste una lingua? In forza del fatto che esistono i parlanti. Nessun cervello lasciato a se stesso, isolato dagli altri, svilupperebbe una lingua in modo spontaneo. Lo stesso accade con la coscienza. La sviluppiamo grazie al fatto che ci confrontiamo sin da neonati con l’altro, l’altro ci fornisce e determina la percezione di noi stessi che, collegata alla propriocezione, ci dà il senso di esistere. Sappiamo dall’antropologia che miti e religioni hanno abitato la mente umana per decine di migliaia di anni: erano prodotti della coscienza collettiva e davano ai gruppi e ai popoli e agli stessi individui singoli i motivi e il significato dell’esistenza. Sappiamo dalla linguistica che le lingue sono prodotti collettivi, che forniscono ogni parlante di significati e valori, compreso il proprio posto nel mondo e il valore che si ha per gli altri. secondo il mio modello di pensiero, che è naturalista, l’individuo umano e quindi anche l’autocoscienza soggettiva esistono solo in quanto effetto del sistema biologico e del campo sociale. La prima grande differenza fra A. I. (Artificial Intelligence) e H. I. (Human Intelligence) è l’autocoscienza soggettiva. Non ho ancora incontrato un computer autocosciente. Un computer sarà autocosciente quando avrà il senso di sé attraverso la comunicazione empatica con gli altri esseri senzienti. A quel punto però sarebbe un essere umano. Lo vediamo con i cani: i più umanizzati fra gli animali. I cani domestici hanno una coscienza embrionale di sé e dell’altro, quindi dispongono di una certa empatia. Sono “quasi” umani: ma ciò dipende dalle decine di milioni di anni di esistenza come animali di branco, cioè socievoli e cooperativi, e dai 20mila anni di vita con l’essere umano. Per i computer, che non sono costituiti di cellule sensibili, né tantomeno vivono una esistenza socievole, empatica e cooperativa, c’è ancora un po’ di strada da fare.
Autocoscienza vuol dire coscienza dell’esserci e dell’essere con l’altro. E qui salta all’occhio la seconda fondamentale differenza fra essere umano e macchina. La caratteristica principale dell’autocoscienza è dare significato a sé e all’altro, quindi dare significato alla vita. Solo il “dare significato alla vita” fornisce un ente di una direzione, cioè di un “senso”. Ora non c’è dubbio che l’essere umano è quell’ente che constata la gioia e si orienta verso la felicità. A un computer solo un essere umano può dare la definizione di “gioia” e di “felicità”, che però il computer non potrà mai capire, né perseguire, perché non ha autocoscienza senziente, ossia non ha capacità di empatia, amore, gioia: può condividere informazioni, non significati. Psicologia, neurobiologia e neuroetica sono oggi condizionate dall’individualismo dominante. Seguendo questa ideologia, la psicologia postula che ogni individuo ha la facoltà di costruire la sua psiche, le sue credenze, i suoi valori: è un ente distinto e assoluto rispetto alla relazione e alla comunità. Secondo la neurobiologia, ogni singolo cervello è completo da solo, contiene in se stesso il suo sviluppo futuro: quindi secerne spontaneamente coscienza e sentimenti. Secondo la neuroetica e la neuroeconomia, ogni individuo persegue i suoi interessi privati e solitari contro tutti gli altri e se eventualmente segue gli interessi altrui, lo fa solo quando questi interessi altrui massimizzano il proprio profitto personale. Secondo quanto ho detto, queste scienze sbagliano e procederanno a tentoni finché non comprenderanno che la coscienza umana nasce come riflesso della coscienza collettiva: un bambino ha coscienza di sé nel momento in cui la madre lo “vede” e lui è pronto per “vedersi visto” da lei, e quando il suo nome pronunciato da un altro lo identifica e lui si sente identificato da quel nome. D’altra parte una madre esiste in quanto esiste una collettività che la vede, la nomina e la include. In questo senso, non esiste un Io senza una collettività, una collettività sia vivente che trapassata. Solo l’appartenenza consente una vera individuazione. Tutto il mondo contemporaneo, guidato dall’economia politica, pensa l’opposto, che noi siamo separati gli uni dagli altri e siamo destinati a confliggere e competere per strapparci le risorse gli uni con gli altri. Siamo macchine egocentriche, destinate unicamente a procurare vantaggi per noi stessi. Che questo l’affermi l’economia politica è comprensibile, perché è guidata da una élite spietata; che lo facciano teorie scientifiche che mirano alla conoscenza dell’uomo e al suo benessere è imbarazzante ed è una posizione che va superata.