8 Ottobre 2024
Attualità Cultura ed eventi

ELOGIO DELLA FOLLIA

L’essere umano annovera alla base delle sue patologie esistenziali 5 grandi paure. Quella di cui parleremo oggi è la paura di impazzire. Su un piano fenomenologico, la paura di impazzire si configura in essenza come “paura di perdere il controllo sulla propria mente”. Essa si manifesta per diverse cause; almeno tre. Una è il ritiro sociale, ossia l’impaludamento domestico a carico di soggetti giovani che da un giorno all’altro non sentono più il bisogno di uscire di casa, finiscono per chiudersi in camera o per gravitare come zombi tra i familiari. A questo punto non è raro che il giovane abbia crisi di rabbia improvvise, talora verso le persone talaltra verso gli oggetti, crisi che lo fanno sentire in preda a impulsi incontrollati e a sviluppare il terrore di stare impazzendo. Altre volte, la paura di impazzire colpisce soggetti giovani impegnati nello studio e uomini e donne prigionieri di un loro perfezionismo lavorativo o familiare e domestico, che inseguono un ideale di perfetta realizzazione, sentendosi spesso sotto l’esame dell’opinione altrui. Queste persone più procedono in questa direzione di idealismo e di sovraccarico, più si sentono invasi da tentazioni all’inerzia e all’inettitudine e da pensieri intrusivi di lascivia, rabbia, conflitto sadico e trasgressione morale o sessuale, che li fanno sentire “deviati” e sulla china della follia. Altre volte ancora, la persona è immersa da tempo in un disturbo d’ansia cronicizzato, in una depressione più o meno severa o in una sindrome di depersonalizzazione e derealizzazione; allora, in uno stato di confuso disorientamento dell’identità e dell’autostima, proietta sull’ambiente esterno, come se gli provenissero da altri, giudizi di inettitudine, slealtà, immoralità, malattia mentale. Questi sono i casi che più frequentemente accumulano terapie psichiatriche e/o psicologiche che nelle loro intenzioni dovrebbero “guarirli”, ma che in realtà finiscono per confermare, grazie alla connivenza degli psichiatri e all’insuccesso delle terapie, il sentimento depressivo di irreversibile perdita della ragione. In fasi particolari e spesso a seguito di disturbi pregressi, come attacchi di panico, ansia generalizzata, disturbo ossessivo compulsivo, disturbi dissociativi (depersonalizzazione e derealizzazione), la persona che la sperimenta teme di perdere per sempre il controllo dei propri processi mentali ordinari; è attraversata da stati alterati percettivi o ideativi, che interpreta come indiziari di un processo morboso irreversibile in atto nella mente o nel cervello. In sintesi, la persona che teme di impazzire associa a un semplice e spesso lieve dato empirico (per esempio uno stato di calo prestazionale, confusione mentale, disorientamento o sconnessione spazio-temporale o di appannamento dell’identità), oppure ad un sintomo inconsueto (panico e sensazione intensa di pericolo, ideazione ossessiva acuta, idee di riferimento, perdita di contatto con la realtà o con il senso di sé ecc.) un’interpretazione drammatica, presa a prestito da codici sociali afferenti al senso comune e alla psichiatria. Il terrore di chi ha paura di impazzire è dunque di contenere in se stesso e di rivelare di colpo impulsi e stati mentali che, essendo precursori di pensieri o atti antisociali o comunque ritenuti disgregativi dell’Io, saranno seguiti da un isolamento e una solitudine assoluta e senza fine, dalla prospettiva di cadere vittima di una dipendenza da demente, o infine di essere sanzionati con l’internamento o l’esclusione sociale. Il vissuto di panico e di sperdimento personale, associato a quello non meno atroce di vergogna e colpa per il danno causato alla famiglia, fanno infine precipitare il soggetto in crisi in uno stato di angoscia infinita e senza apparente via d’uscita.  È evidente che la ridondanza di tale paura impedisce alla persona di prendere una visione obiettiva del suo disagio, trasformandolo in una fonte inesauribile e insormontabile di ansia. È altrettanto evidente che in assenza di coscienza di quanto sta accadendo realmente, cioè che la sintomatologia intende porre fine ad una situazione pregressa di blocco evolutivo e di alienazione dei suoi autentici bisogni, il sintomo può effettivamente scivolare in stati di gravità crescente. La paura di impazzire è d’altra parte determinata dal significato che la persona collega all’idea di impazzire, dipende cioè dall’interpretazione che si dà della follia. Il dato reale, al momento dell’esplosione panica, non ha alcun rilievo obiettivo (la prova a contrario è che gran parte delle crisi psicotiche reali si svolgono in completa assenza di paura impazzire). L’effetto di terrore sperimentato dipende dal fantasma culturale della follia, e da due fattori in particolare: il primo è l’avvento della cultura borghese che, dal 5-600 in poi, ha escluso i matti dal sistema sociale, paventando una loro presunta, grave pericolosità. Il secondo, più recente, è l’avvento della psichiatria organicista, che ha diffuso fumose diagnosi di processo biologico a decorso tragico e ricoveri ospedalieri e cure psicofarmacologiche a vita. In entrambi i casi l’introiezione del fantasma culturale della follia genera nei soggetti fobici un senso di fallace riconoscimento, ossia una irrealistica auto-diagnosi, che è alla base della paura di impazzire. Oggi la paura di impazzire è dunque spesso una fobia di carattere iatrogeno, prodotta dalla diagnosi e dalle terapie psichiatriche e dal loro potere di suggestione sul senso comune. Un riscontro empirico di questa affermazione è che, mentre il conflitto psicodinamico può essere precoce, sia infantile che adolescenziale, la paura di impazzire si manifesta di solito in un’età avanzata dello sviluppo (tarda adolescenza o giovinezza). Si manifesta dunque solo allorché la persona ha assorbito il concetto di follia dalla cultura circostante. Come nei secoli precedenti, i disagiati mentali gravi vengono tuttora esclusi e inclusi contemporaneamente. In Italia e in una parte del mondo occidentale, essi non subiscono lunghi ricoveri coatti, non esistendo più nemmeno le strutture. Di solito gravitano fra periodi in famiglia, quando ce l’hanno, o in case famiglia e altri centri di assistenza, dove subiscono o richiedono essi stessi brevi ricoveri, quando necessari. In senso stretto, essi non appaio né esclusi né inclusi. Ma non è così. Di fatto essi sono esclusi perché, benché gravitino nel territorio, spesso senza fare nulla di grave, sono considerati “morti civili” e trattati come tali. E d’altra parte sono inclusi perché, al di là dei brevi ricoveri coatti, sono sempre più massicciamente sfruttati a fini produttivi, cioè di spesa assistenziale: sia loro come soggetti che le famiglie o lo Stato per loro. Una famiglia intera può essere devastata moralmente e rovinata economicamente dalla presenza di un “folle” in casa propria. Essa di fatto viene chiamata a pagare l’enorme debito economico e morale contratto con le istituzioni sociali e la classe medica a causa della “inadempienza psichica” del suo membro malato (visite psichiatriche, pratiche burocratiche, ricoveri coatti, cliniche private, cure psicofarmacologiche e mediche generiche, disoccupazione, invalidità civile ecc.). Sentimenti di impotenza e di vergogna sociale accompagnano come un’ombra la vita delle famiglie. La diagnosi di psicosi – e soprattutto quella di “schizofrenia” – distrugge la persona e getta uno stigma indelebile sull’intera famiglia. L’indicazione, tipicamente psichiatrica, di una causa genetica del disturbo peggiora la situazione, spesso facendo ricadere sulla famiglia la vergogna di una tara ereditaria. Per parte una certa psicologia getta sulla famiglia l’ipotesi di gravi maltrattamenti primari di cui non si ha alcuna prova. La differenza sostanziale dai secoli precedenti è che allora la fascia di popolazione colpita dalla disgrazia e dalla vergogna, nonché adoperata su un piano di rappresentazione simbolica, non superava il 2-3%; oggi essa si è estesa come una macchia d’inchiostro dalla psicosi alle nevrosi, alle depressioni, ai disturbi alimentari, fino alla più banale delle ansie, coinvolgendo una quota valutabile intorno al 20-30% della popolazione. In sostanza, è giudicato “malato” e quindi anche “folle” ormai un individuo su 4, purché abbia in corso una diagnosi psichiatrica e una terapia farmacologica. I simboli sono potenti, si diffondono come virus e il mercato si allarga. Sullo schermo della coscienza si presentano rabbie, invidie, nostalgie, dolori morali, fantasie distruttive, impulsi a perdere il controllo nelle più varie occasioni, impulsioni di pensieri ossessivi ecc., che il soggetto fobico interpreta alla luce dei giudizi del Super-io come espressioni di follia: la disgregazione irreversibile dell’Io, l’annientamento della volizione (il diventare un ebete) o l’imminente commissione di atti antisociali che porteranno all’internamento. In sede di psicoterapia tali rappresentazioni devono essere riportate alla loro natura originaria di emozioni viscerali rimosse dalla coscienza, che alla coscienza fanno ritorno, di sconforto e di protesta; quindi saranno ulteriormente essere interpretate come messaggi da parte di un soggetto inconscio che non possiede la parola. I messaggi dall’inconscio, per quanto terribili possano apparire, vertono semplicemente sul desiderio di liberarsi da una gabbia mentale normativa oppressiva, che spesso coincide con una situazione affettiva e sociale oggettiva, che andrà tuttavia individuata e decostruita, quantomeno nelle sue valenze morali. Mentre il fobico percepisce la pressione di questi bisogni alienati ai confini della coscienza come segno di malattia mentale, il terapeuta deve indicarli come espressioni non ancora verbalizzate di un desiderio impulsivo di evadere dall’esistente: un bisogno di autonomia che si presenta al paziente come uno “psichismo anarchico”, non ancora integrato né nel suo Io cosciente né in un sistema di valori condiviso. Potrebbe dunque cominciare a spiegarlo come uno stato transitorio di un passaggio da una coscienza ristretta e restrittiva ad una coscienza più ampia e complessa.

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