Viviamo in un’epoca in cui si parla spesso di narcisismo della personalità e nei fatti l’uomo tende –come dalla notte dei tempi- a volersi fare Dio. Nel senso che rafforza il proprio ego a discapito del desiderio dell’altro inseguendo l’idolatria ovvero il consumo, l’avere solo a fini distruttivi che non gode della vita degli istanti di presenza donanti felicità. Il prezzo più alto del narcisismo in questa società lo pagano i bambini. Questi ultimi non hanno spesso gli strumenti per opporvisi, glielo impediscono da un lato la sua stessa piccolezza, quindi insufficienti capacità analitiche; dall’altro fattori psicodinamici: sentimenti di colpa e di vergogna che lo inibiscono e la fanno sentire in torto. Il genitore è l’autorità morale interiorizzata, quindi nella maggioranza dei casi esaminare la sua personalità e analizzarla oggettivamente significa opporsi a quell’autorità, quindi provare colpa. Altre volte, è la vergogna a rendere impossibile l’analisi oggettiva del disturbo del genitore. Prenderne atto significa esporre il genitore e, in fondo, l’intera famiglia (sempre e comunque amati) al giudizio personale e sociale. I figli vengono duramente colpiti e danneggiati dal genitore narcisista e dallo spettacolo della vittimizzazione del genitore vittima; ma tale è la vergogna che ne provano, che dissociano la memoria profonda e la tengono segregata nell’inconscio. A livello caratteriale i figli di un genitore narcisista possono svilupparsi in due direzioni diverse. Nella prima e più frequente o sono vittime o si identificano con la vittima e sviluppano a loro volta un masochismo che li rende inclini a ripetere l’esperienza con partner simili al genitore, spesso sadici e borderline. La seconda direzione è altamente patologica e consiste nell’identificarsi con l’aggressore. Lo slittamento da vittima a aggressore è sottile, spesso presuppone una dissociazione e una sorta di “doppia identità”. La vittima comincia a odiare la sua natura vulnerabile (o la vulnerabilità del genitore che ha visto passivizzato) e l’odio fa da carine allo sviluppo della seconda personalità. Esiste una terza direzione, patologica anch’essa. Per reazione, il figlio traumatizzato esprime uno sforzo precoce di indipendenza che fa di lui un anoressico sentimentale o una anoressica alimentare: comunque una persona isolata in una radicale e compulsiva diffidenza che la condanna a condurre un’esistenza promiscua o solitaria. Talvolta alcuni figli del trauma subiscono effetti a carico dell’identità affettiva e sessuale, che tuttavia non li mettono al sicuro né dall’incontro con partner sfuggenti e altrettanto narcisisti dei loro genitori, né dal rischio di una solitudine del cuore che li costringe in una vita sterile e senza amore. I figli di genitori narcisisti, divenuti grandi, rivelano gravi traumi, nondimeno sono accessibili alla psicoterapia: perché serbano nella memoria inconscia il trauma dal quale provengono, quindi possiedono di fatto le chiavi per capirlo e risolverlo. Tuttavia, essendo queste chiavi sepolte nell’inconscio, per dissotterrarle hanno bisogno di una lunga analisi del profondo effettuata con terapeuti esperti, specialisti del campo. La memoria del trauma è di solito avvolta da un velo di mistificazione e di idealizzazione, che rende il paziente incredulo e poco incline all’analisi profonda. Togliere quel velo significa fare emergere il dolore, la vergogna, l’umiliazione, la rabbia e l’odio sepolti. Ma ancora al di sotto della superficie psichica connotata dal dolore, la rabbia e la vergogna, c’è il nucleo profondo della paura, del sentimento della propria angosciosa inermità e impotenza. Il gioco terapeutico tuttavia non finisce qui: al di sotto ancora di questi strati negativi c’è infatti l’integrazione della personalità, che comporta il “realismo oggettivo”: la consapevolezza compassionevole o distaccata della normale violenza del mondo, più o meno presente in rapporto ai diversi tipi psicologici, i diversi gradi di patologia e i diversi contesti culturali. Tutti questi passaggi implicano che il terapeuta sia capace di comprensione empatica, contenimento, sottile individuazione e interpretazione degli stati alterni della personalità, resistenza alla tentazione collusiva, cognizione diagnostica della vittima e del suo persecutore, infine percezione delle potenzialità evolutive della persona. Esiste d’altra parte un rischio inerente all’uso patologico del ricordo del trauma che va segnalato. In alcuni casi, sempre più frequenti soprattutto in ambito giovanile, il ricordo del trauma può andare incontro a un esito vittimistico rivendicativo. Il soggetto traumatizzato si incista nella memoria traumatica e la usa per non assumersi la responsabilità delle sue emozioni conflittuali (che restano inconsce) e quindi dello sviluppo di una personalità autonoma. Dietro l’ossessione del ricordo, può nascondersi l’ “ideologia del danno”, una dinamica rivendicativa che assume il danno come misura di ogni evento successivo della vita, compromettendo così ogni possibile prospettiva futura. Una dinamica di tal genere esita, il più delle volte, nella paralisi esistenziale, rivelando così un sottofondo sadomasochistico. Il figlio danneggiato, reso masochista dal danno subito, usa il suo masochismo in modo sadico, per tiranneggiare colui che un tempo è stato il suo tiranno. Egli si mostra incapace di vivere, si lamenta, evita ogni occasione di lavoro e di socialità, fino a rendersi effettivamente incapace di vivere, danneggiando così egli stesso le sue personali qualità umane e intellettuali e le sue possibilità sociali. E’ di fondamentale importanza, in questo caso, che lo psicoterapeuta non ceda al fascino seduttivo di una spiegazione semplicistica. Talvolta, per semplificare il lavoro, lo psicoterapeuta finisce per instaurare una collusione col paziente rivendicativo, imputando la responsabilità del sistema di vita patologico a un evento traumatico subito passivamente, alimentando nel paziente il risentimento paralizzante della vittima. Si tratta di un rischio grave. Dal mio punto di vista, non si esce dal trauma da abuso narcisistico con una reazione emotiva simmetrica, di paura, odio e vendetta; perché per questa via si hanno solo due alternative: o l’identificazione col persecutore o il vittimismo rivendicativo. È quindi importante che il terapeuta non entri in collusione col paziente sulla base di questi sentimenti. È cioè importante che il terapeuta non confermi in modo impulsivo e reattivo la paura, la rabbia e la vendicatività sperimentate dal paziente, ma elabori il trauma tenendo presenti la potenzialità evolutive, non danneggiate, della persona. Anche in sede di teoria della psicoterapia, una cosa è valutare l’esistenza di traumi e osservarne la tendenza alla ripetizione, allo scopo di liberare le potenzialità del paziente; tutt’altra è fare del trauma una sorta di oggetto sacro di una religione sadomasochistica. La strutturazione di una psicopatologia è sempre di natura dialettica: da un lato gli eventi di vita, dall’altro il modo come il soggetto li interpreta e li gestisce. L’abuso dell’ideologia del trauma taglia fuori dallo spazio dell’analisi la capacità del paziente di sviluppare ampie e profonde competenze emotive ed esistenziali, che sono alla fine il motore principale e risolutivo di ogni guarigione.
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DALLA MEMORIA AL FUTURO
- di Pasquale Lazzaro
- 4 Luglio 2023
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- 1 anno fa